lunedì 16 aprile 2018





Capitolo XVII

 

(trascrizione a cura di Giovanni Lo Presti, Salvatore Salmeri e Massimo Tricamo)

 

Ma per la grazia del sommo Dio e per intercessione de’ Santi Protettori, non molto soffiando il vento, si venne ad estinguere detto fuoco senz’aversi dilatato. Con tutto che sino la sera fosse stata fervente la fiamma, incenerendosi detti legna, non si dilatò. Il che fu attribuito nonché per un gran portento, [ma] a miracolo Divino. E non perciò non restarono abbruggiate le case, gli effetti e vigne, le quali si retrovavano per tutto lo spazio di detto campo, specialmente ove esistevano gli materiali per aumentarsi il fuoco sudetto. Se per causa di detto incendio dalli poveri cittadini di questa s’avesse inteso rammarico con pianto e lagrime, e di quelli che si vedeano abbruggiare le possessioni senza puotersi dare alcun riparo, si lascia alla considerazione di quei che l’intendono, poiché per essere incredibile, come pure eccedendo in eccesso, non si può distintamente descrivere.

 

Disertore spagnolo fuggito dalle truppe di cavalleria giunge nel centro urbano, riferendo un tragico avvenimento appena accaduto: in contrada S. Giovanni una palla di cannone ha decapitato un suo commilitone Mentre che in città si stava con molt’afflizione per l’incendio seguito nella Piana, venne un desertore spagnuolo di cavallo: attestò che, ritrovandosi con altri soldati di cavalleria in detta contrada di San Giovanni nel tempo che da questa città furono disparate due cannonate, una palla di cannone levò intiera la testa ad altro soldato spagnuolo, che con esso [lui] si ritrovava a cavallo. Perloché esso desertore non seguì il cam[m]ino con l’altri soldati fuggitivi, trattenendosi a dietro con quello morto. Ed osservando che quei s’aveano dilongato colla fuga, senz’alcun timore spinse le redine del suo cavallo e se ne fuggì in questa città. Riferì inoltre che dette truppe spagnuole vengono nella Piana a contemplazione [su richiesta, ndr] delli paesani della Comarca solo per demostrarsi [questi ultimi] molto affezzionati all’arme spagnuole, per tener questa città spaventata. Ma meglio per aver campo d’assassinare colli ladronecci tutta sudetta Piana.

 

Altri tre disertori spagnoli a cavallo, in fuga dal campo di Francavilla, riferiscono di essere sfuggiti ad un assalto da parte di alcuni civili intenzionati a riscuotere la taglia promessa dai comandi militari spagnoli per ciascun disertore Nel medemo giorno, sul tardi, vennero pure altri tre soldati spagnuoli da cavallo, avendo fuggito dal loro campo in Francavilla. Riferirono che per la strada furono assaltati da molti paesani della comarca per farli prigionieri, con [allo scopo di, ndr] condurli alli loro officiali in detto campo per conseguire la mercede promessa e determinata per ogni soldato fuggitivo, per [quale, ndr] pagamento della loro tradiggione. Ma questi, uniti, con ogni impegno attesero a defendersi, tanto che uno degli assalitori restò ucciso, con aversi gli altri fugato con molto loro discapito. Peronde se ne vennero sino a questa città.
 
Reggimento piemontese Saluzzo (a cura del modellista Salvatore Barresi)

 

19 agosto 1719

Ulteriori diserzioni di militari spagnoli che barattano i propri cavalli per imbarcarsi con destinazione Calabria o Napoli 19 agosto Pure in questo giorno comparirono altri quattro soldati di cavallo spagnuoli, li quali - ritrovandosi con alcune squadre di cavalleria della loro nazione nella città del Castro Reale e parti convicine in questa Comarca - la notte scorsa, ritrovandosi di battuglia, arrischiarono la fuga e desertarono con aversi retirato in questa. Non riferirono cosa di sodo o per non saperlo o fingendo esserne inscienti. Anzi, così li giorni scorsi come susseguenti, di continuo venivano  molti soldati di cavallo spagnuoli prendendo la fuga, cossì di quei che dimoravano in Francavilla come dell’altri ritrovati in questa convicina comarca. E tutti, barattandosi gli loro cavalli, s’imbarcavano nell’istante che si ritrovava la commodità pronta sopra alcuni imbarcazioni, conducendosi nella Calabria o in Napoli.

 

I militari spagnoli ed i malviventi dei comuni dell’hinterland («Comarca») puniscono la fedeltà dei Milazzesi alla corona imperiale appiccando il fuoco negli appezzamenti della Piana Volendo demostrare gli Spagnuoli, come pure tutti gli paesani di questa Comarca, nonché la loro malvagità, pure il mal animo che aveano con questa povera città - asserendo che gli cittadini di essa non volsero [ar]rendersi all’arme di Spagna, soffrendo un assedio molto stretto per lo spazio di più mesi, contentandosi piuttosto perder nonché li loro effetti, pure la vita per rendersi al vassallaggio di sua Cesarea Cattolica Maestà, quando peraltro tutto il regno era alla devozione del Re di Spagna - sempre pretesero danneggiar questa città. Perloché in questo giorno arrischiarono molte truppe spagnuole di cavalleria furtivamente condursi in questa Piana, spalleggiate d’alcuni villani armati di questa Comarca, e di nuovo per danneggiare questi cittadini in più parti di essa Piana. Ove scorgeano ritrovarsi materiali per incendere il fuoco, accesero quello: e da nuovo dalla città s’osservò la fiamma, la quale abbruggiava le loro possessioni. E ciò seguì oltre due volte nelli giorni susseguenti.

Sopra che si scorgette non tanto la mala inchinazione delli Spagnuoli, come [quanto piuttosto, ndr] la perfidia dell’abitanti di questa comarca, li quali - non reflettendo agli oblighi dovuti del vassallaggio per due volte giurato alla Maestà Cesarea e Cattolica, né alla desolazione delli Spagnuoli, quali andavano raminghi e fuggitivi nel Regno, né alla disperata speranza d’aver alcun ancorché minimo aiuto da Spagna, tanto per deficienza di soldati e per le guerre intestine ed estere nella Spagna e finalmente tutte le volte si puotessero approntare soldatesche con quali navilij si puoteano condurre in questo Regno, tutto presidiato da tante navi inglesi ed altri vasselli e galere - pretendevano che la loro fellonia fosse pure associata da questi fedelissimi cittadini. Li quali, non avendo alcun riguardo nonché alli loro beni, nemeno alla propria vita - il che s’osservò per tutto il tempo della presente guerra e colla perdita e desolazione delle loro case in città e possessioni nel territorio, oltre gli gravissimi patimenti sofferti, cossì nella carestia, come nelli morbi avuti colla morte pure di molti cittadini di qualunque specie, uccisi con palle di cannoni e con bombe, come con infermità maligne - pure patientemente con «ogni tranquillità soffrirono, colla sola reflessione di far palese coll’opre l’affezione, fedeltà e servizio dovuto al loro monarca cesareo e cattolico, qual tenevano nel cuore, pregiandosi esser essi soli nel Regno stimati per tali, differenziandosi dall’altri regnicoli. E reflettendo, inoltre, che la loro fedeltà con occhio benigno e clemente s’abbia per sempre da riguardare, pure ammirare d’un re clementissimo. Oltreché si celebreranno per molti secoli in avvenire gli gesta ed azzioni generose d’un popolo (benché esiguo) dell’intutto contrario ad un regno intiero tassato di fellonia».

Il che sperimentarono dalle compitissime lettere inviate da sua Cesarea e Cattolica Maestà a questi spettabili giurati e reverendo arciprete. Degne non solo scolpirsi in marmi e bronzi, pure fregiarsi a lettere di purissimo oro per eterna memoria. Ed infine contentandosi tutti gli cittadini di questa spargere tutto il sangue in servizio del loro Padrone [sovrano, ndr]; e solo per non esser tassati con alcun’ancorché minim’ombra di infedeltà.

 

20 agosto 1719

I civili dei comuni dell’hinterland parteggiano per gli Spagnoli per interessi personali. Tra i più accaniti Paolo Zangla e Francesco Oliveri, entrambi di Pozzo di Gotto, i quali, oltre ad aver incassato la nomina a due importanti incarichi, pretendevano incamerare i beni immobili sequestrati agli aristocratici milazzesi accusati di tradimento per aver giurato fedeltà alla Corona imperiale. Ma i comandi militari spagnoli, lungi dall’assecondare queste loro pretese, lodarono la fedeltà dei Milazzesi al proprio sovrano 20 agosto Nel tempo che gli Spagnuoli tenevano questa città assediata colla speme di sorprenderla di momento in momento, come si millantavano con tutti gli paesani di questa Comarca, si fecero questi [ultimi] molto affezionati all’arme spagnuole, colla speme d’esser avantagiati così nel generale come nel particolare più di questa città, tanto nelli privilegij tenea essa città come nelli posti, cariche e dignità per tutto il Regno. E specialmente quelli della città di Puzzo di Gotto, fra quali si nominarono per capi principali Paolo Zangla e Don Francesco Oliveri, con essere stato il primo eletto da quel viceré spagnuolo marchese di Lede per commissario generale ed il secondo per capitano di soldati nazionali.

Perloché fatti entrambi nonché insolenti, ma veri masnadieri, col seguito delli villani paesani e della comarca pretesero dividersi tra essi ed altri di detta città, come vassalli del re di Spagna, quei effetti disolati nella Piana come beni di rubelli al sudetto re. Bensì intavolata la loro insussistente pretenzione cogli officiali spagnuoli, questi, conosciuta la loro sfacciataggine, si dichiararono publicamente che li melazzesi, con tutto che non avessero assecondato al volere d’essi Spagnuoli con esserli nemici, non perciò si puoteano dichiararsi rubelli, poiché hanno complito col dovere in servizio del loro Re. Anzi, si disse (rimettendomi al vero) che quei furono tassati da felloni nonché da presunzioni. Tanto che la loro pretendenza svanì col molto suo discapito; ed in avvenire non tentarono con simili stravaganze. E con tutto ciò sempre demostrarono il mal genio [che] tenevano cogli abitatori di questa.

 

21 agosto 1719

Tre disertori spagnoli fuggono dal campo di Francavilla 21 agosto. Si conferirono in questa città tre desertori spagnuoli fuggiti dal loro campo in Francavilla. Non riferirono cosa di sodo ed avendosi venduto li cavalli furono trasportati in Calabria.

 

22 agosto 1719

Contadini dell’hinterland, capeggiati da Zangla ed Oliveri, rubano sessanta buoi ai milazzesi, costringendoli a pagare un riscatto per non macellarli 22 agosto Con tutto che quei di Puzzo di Gotto con alcuni loro paesani e della Comarca avessero composto a molti, con averli rubbato li loro bovi, e doppo seguita la restituzione avuta la composizione [riscatto, ndr] richiesta, nondimeno in questa notte - uniti sudetti villani con l’intelligenza delli sudetti di Zangla ed Oliveri - rubbarono da sessanta buoi delli paesani di questa città, li quali si ritrovavano in detta Piana e territorio, numerandosi, fra l’altri, num[ero] [segue lacuna nella copia, ndr] dal signor Don Fiderico Lucifero, altri [segue lacuna nella copia, ndr] dal signor Don Francesco Lucifero, sei dal sacerdote Don Giuseppe Capponi, [segue lacuna nella copia, ndr] dal signor Giovanni Muscianisi, [segue lacuna nella copia, ndr]. Anzi, nella presa di detti bovi intervenne detto di Zangla, come capo d’una truppa di villani ladroni, e più di essi sudetto capo. Anzi, li sudetti di Zangla ed Oliveri, avendo fatto prendere molt’altri bovi dell’eredità del fu Pietro Guerrera e del signor Don Saverio Siragosa, fu necessario per recuperarsi dalla prima partita pagarsi al detto di Zangla venti genovini [moneta in uso ai tempi dell’Assedio, ndr] per mezzo del sacerdote Don Giuseppe Lombardo e dall’altra partita altra porzione di denari. E di più, nonostante che dall’eredità sudetta s’avesse sodisfatto sudetta somma, pure susseguentemente li furono presi sei bovi; e per recuperarsi altra volta si pagarono al detto Don Francesco Oliveri tarì ventiquattro per non macellarsi. E se si volessero raccontare tutte le composizioni fatte dalli sudetti di Zangla ed Oliveri renderebbe nocumento nonché ammirazione a chi l’ascolta. Quest’è vero che furono in eccesso e pure era vuopo soffrirsi da questi poveri paesani, li quali si vedevano giornalmente assassinare dalli villani ladroni e non puotevano trovar lo scampo, per non seguire tante composizioni e latrocinij sfacciatamente adoprati da essi villani infami coll’auspicij delli sudetti di Zangla ed Oliveri.

 

23 agosto 1719

Prosegue la carestia 23 agosto. La carestia d’ogni vettovaglia nonché [non solo, ndr] di pane e vino, ma di qualsivoglia altra sorte di viveri, continuava gagliardamente in questa città, con aversi redotto gli poveri cittadini in grandissima necessità, non avendo formalità alcuna come sostentarsi. E tolto alcuni plebei che s’adattavano in comprare e vendere, spalleggiati d’altri che tenevano qualche denaro, tutti gl’altri di qualunque condizione molto soffrivano, vedendosi perire di fame, così per non ritrovarsi menoma sorte di viveri, come per esser molto esorbitante lo prezzo di quelli che con difficoltà si poteano avere, ancorché fossero tutti di malissima qualità e condizione.

 

24-29 agosto 1719

Le truppe imperiali entrano a Messina mentre gli Spagnoli si ritirano nella Cittadella. Epidemia uccide decine e decine di militari imperiali 24 agosto sino a 29 detto. Venne notizia veridica che il campo tudesco avesse entrato nella città di Messina, con aversi impossessato delli bastioni di Matagriffone, Castellazzo ed altri di essa città. Doppo il palazzo e tutta Terranova, col discacciamento delli Spagnuoli, li quali tutti si retirarono nella Cittadella. Con aversi fatto molte trinciere, con quantità di cannoni e bombe, con molto stento e mortalità delle sudette truppe tudesche, impedite alla gagliarda dal cannone di detta Cittadella. E col disparo pure di molte bombe. E per quello s’affermava, l’officiali tudeschi si demostrarono molto intrepidi e costanti nell’assedio di detta Cittadella, non curando la vita pure gli signori comandanti generali coronelli ed altri.

Non si puoterono in detto tempo numerare tutti quelli poveri soldati tudeschi, li quali passarono all’altra vita per causa delle febri maligne e con dissenterie incurabili che l’assaltarono. Poiché non passava giorno che non ne morissero trenta e più. Bensì per gli cittadini per misericordia di Dio non correa l’istessa epidemia, avendo cessato in parte, con tutto che molti avessero incorso nel medesimo morbo colla perdita della loro vita.

 

30 agosto 1719

Disavventura di Antonio Galletti, farmacista, recatosi in Calabria per acquistare viveri e derubato assieme al figlio ed ai suoi marinai da alcuni militari spagnoli. L’avvenimento fu oggetto di procedimento civile, nel quale verosimilmente fu proprio il Barca a difendere uno dei soggetti coinvolti nella controversia. Tra gli altri, il padrone marittimo Orazio Patti, il quale noleggiò al Galletti l’imbarcazione necessaria per recarsi in Calabria 30 agosto Per la veemente carestia che continuava nella città di qualsivoglia sorte di vettovaglie, vedendosi tutti gli abitatori perire di fame, li giorni scorsi Antonio Galletti, aromatario [farmacista,ndr], raccolto un capitale di onze venti, tanto proprio come d’altri, determinò condursi nella Calabria per far compra di viveri. Ed in effetto, affittata una barca da padron Horazio Patti, si partì da questa con Giuseppe, suo figlio, conducendo detta barca li seguenti marinari, benché molto sprattici: Antonino Falcone, Georgio Cannata, Francesco Morisco, Vincenzo Zanghì e Francesco la Macchia. E trasferiti tutti in Calabria, e [precisamente] nella Terra di Palmi, fecesi compra di formenti. E doppo quelli fecero macinare al molino della Serra, da dove s’incaminarono per verso questa città. E ritrovandosi nel camino allo scaro nominato d’Imbuto, non puotendo proseguire il viaggio (come doppo attestarono), fecero alto in detto scaro, con tutto che detta barca non s’avesse approdato nel lido, ma una corda e mezza dal terreno lontana, per esser tutta quella Marina a devozione delli Spagnuoli. Anzi, da essi con molte scorrerie sovente scorsa. E sovragionta la notte, non badando a trattenersi con ogni circospezione e cautela per non inciampare in alcun pericolo, anzi dedicandosi al sonno senza guardia d’alcuno di essi, all’alba del giorno seguente affermarono che da detto lido s’abbia partito un soldato spagnuolo ed a nuoto si conferì sopra detta barca con uno stile [pugnale a lama lunga, stretta e acuminata, ndr] in mano, minacciando al detto di Galletti e l’altri che portassero la barca a terra. Peronde, tutti spaventati, osservando che nella ripa di detta Marina si ritrovavano da cinquanta soldati spagnuoli a cavallo, furono costretti approdare in terra sudetta barca, ove, vessati con molte battiture, detti marinari - e tutti spogliati - conducessero fucatamente con alcuni soldati sudetta barca nello scaro di Fondachello. E fatti tutti disbarcare si presero li soldati alcuna pozione di detti viveri, con averla lasciata nella detta Marina. E susseguentemente detta barca la fecero approdare nella Marina di Cattafi, lontana da questa città da miglia quattro. Ove [venne] disbarcata tutta la farina ed abbruggiata la barca da detti soldati. Così li detti di Galletti, come tutti gli marinari, ben legati furono condotti nella città di Castroreale e posti carcerati. Bensì, doppo, tutti sudetti marinari furono cambiati il giorno antecedente con aversi inviato con un tamburro sino alla chiesa di San Giovanni, fori le porte di questa città e pochi passi distanti dalle mura di essa. Ed in questo giorno furono pure condotti con altro tamburro li sudetti di Galletti nel medemo luogo.

Molto si discorse in questa città sopra la presa di detta barca. Molti diedero la colpa al Galletti e marinari, poiché in nessun modo si dovea con detta barca farsi il camino in detto scaro d’Imbuto, luogo pieno di nemici spagnuoli. Anzi, tutte le volte che per venti contrarij fossero stati forzati approdare in detto scaro, doveano sempre stare guardigni per non inciampare in alcun sinistro accidente. E nemeno doveano addormirsi tutti senza guardia alcuna. Oltreché molti prattici asserivano non aver corso [non essersi registrate scorrerie, ndr] nel tempo che la detta barca fece alto in detto scaro. Non seguì tempesta tale né di mare, né di venti o pioggie, che non s’avesse possuto venire in questo Capo senz’alcuna difficoltà e pericolo. Asserendosi da molti che sopra detta barca vi erano col Galletti molte persone. E furono tutti così timidi, o fuor di sentimenti, che ebbero timore d’un solo marinaro nudo nel mare, benché con un stile in mano. Per certo che, facendo animo tutti tra essi, l’avrebbero trucidato o almeno legato. E, discostandosi dal lido, approdare in questa liberamente. Per certo fu molto grave la loro codardia per non dir altro.

Altri, poi, pretendevano discolpare alli medemi, asserendo che se puoteano navigare per questa città l’avrebbero fatto volentieri e non posto a repentaglio di perdere pure la vita. Oltreché concorrevano li maggiori interessi del detto di Galletti, avendo perso tutto il capitale posto. E finalmente asserivano che in nessun modo si puoteano giudicare dall’assenti le congienture occorse allorché fu presa detta barca, puotendola solamente quei che assistevano discernere. Onde così il Patti, padrone di detta barca, come Francesco Picciolo, qual consignò al Galletti onze cinque a lucro e perdita sopra detto viaggio, fecero comparire al Galletti in giudizio per il pagamento del prezzo di detta barca e di dette onze cinque. E sopra tal causa si sta controvertendo tra esse parti nella R[egia] C[orte] Civile di essa città, colle prove convenienti d’ognuna per sua defenzione.

 

1 settembre 1719

Tre disertori spagnoli riferiscono che nel campo di Francavilla sono accampati ottomila soldati di fanteria e cavalleria A primo settembre vennero in questa città tre desertori spagnuoli, soldati di cavallo fuggiti dal suo [loro, ndr] campo residente in Francavilla. Riferirono esservi accampati in detta terra da ottomila soldati soldati di fanteria e di cavalleria, con quelle truppe che scorrevano per questa Comarca e nella città di Puzzo di Gotto.

 

2 settembre 1719

Ulteriori disertori 2 settembre. Seguì l’istesso d’altri tre soldati di cavallo venuti da Francavilla. Non riferirono cos’alcuna di sodo e sempre millantandosi a favore delli Spagnuoli. E fattasi la vendita delli loro cavalli - come gl’altri tre del giorno antecedente - di vile prezzo si fecero imbarcare per Calabria.

 

3 settembre 1719

L’accampamento spagnolo a Pozzo di Gotto per un solo giorno Pure si disse in città che il campo in Francavilla avesse partito facendo alto nella città di Puzzo di Gotto. Si stava con molt’attenzione per sapersi il vero, anzi diligentemente si ricercava se ciò fosse stato credibile. Si verificò che gli Spagnuoli furono in Puzzo di Gotto, poiché in questo giorno s’ebbe notizia soda che il campo spagnuolo col signor conte [marchese, ndr] de Leda, viceré per la Spagna, comparì alla Marina di San Biaggio, ove si trattenne solamente per tutto detto giorno. E non corsero lamentazioni nel passaggio che fecero dette truppe, poiché non fecero cosa d’alcuna consequenza.

 

4 settembre 1719

Ipotizzato trasferimento dell’accampamento spagnolo a Rometta 4 settembre. Pure, avendo slocato detto campo da detta Marina, si disse publicamente in città che avesse accampato retirandosi nella città di Rometta. Ma per non aversi da questi cittadini communicazione alcuna per la Comarca, nemeno nel loro territorio, alle volte si raccontavano molte bugie ed era necessario crederle.

 

5 settembre 1719

Disertano 5 militari spagnoli 5 settembre. Vennero in questo giorno cinque desertori spagnuoli, quattro fanti ed uno di cavallo. Non riferirono cosa di sodo e non si puotè dare credito alle loro bugie.

 

Tentato sequestro da parte delle autorità spagnole - su istanza degli aristocratici di Pozzo di Gotto - del feudo di Faraone ai danni del milazzese Federico Lucifero, accusato di parteggiare per gli Imperiali. Ma il sequestro viene sventato, trattandosi di appezzamento di proprietà della sorella del Lucifero Molto spaventato si fece a vedere Natale [segue lacuna nella copia, ndr], da più tempo metatiero nelli poderi del signor Don Fiderico Lucifero in questa Piana. Il quale per tutto il tempo dell’Assedio delli Spagnuoli sempre commorò fuori della città, assistendo per quanto puoteva alle possessioni del detto di Lucifero. Con tutto che nella maggior parte fossero state destrutte, specialmente quelle che si ritrovavano vicino il campo spagnuolo. E riferì al sudetto signor di Lucifero come - a contemplazione delli principali della città di Puzzo di Gotto - s’avea dato ordine dagli comandanti spagnuoli, ritrovandosi in questa Piana, che s’incorporassero [si sequestrassero, ndr] tutti gli effetti delli cittadini di questa come rubelli e felloni. Ed infatti s’avea incorporato il fegho e luogo grande del medemo signor di Lucifero nella contrata di Faraone, volendoselo appropriare Don Francesco De Oliveri di Puzzo di Gotto per vendemiarlo per conto suo proprio, con l’asserzione che il detto signor di Lucifero, come principale di questa, s’avea demostrato molto affezionato alle arme tudesche e molto contrario a quelle di Spagna. Con aver avuto commissione il sudetto di [segue lacuna nella copia, ndr] di guardare tutte le vigne poste in detto fegho per conto della Regia Corte delli Spagnuoli, stante l’incorporazione seguita di detto fegho. Anzi, si pretendeva dal detto d’Olivari che detto metatiero si partisse [venisse licenziato, ndr] da detto fegho; e con molto suo stento puotè superare che si trattenesse come pria, con aver la cura per non disperdersi l’uve di dette vigne sino alla vendemia. E di più riferì che esso signor di Lucifero era stimato per il principale rubello.

Perloché dal sudetto signor di Lucifero, non puotendosi far altrimenti - giaché in detto fegho dal principio dell’Assedio s’aveano ritrovato li signori Don Diego e Don Geloramo [segue lacuna nella copia, ndr] di Stefano, fratelli e nipoti del detto di Lucifero, il primo venuto da Palermo e l’altro da Messina, senz’intelligenza del zio, con aver dato cura al vino prodotto nell’anno scorso e di detto fegho ed altre possessioni del medemo, repostato nel medemo fegho e nella contrata della Contura - s’uscirono scritture publiche che sudetto loco di Faraone non era proprio di esso signor Don Federico, ma della sua signora sorella Donna Francesca da più anni. E perciò in nessun modo puotea sussistere dett’incorporazione per esser beni di donna, la quale in nessun modo ebbe participio alcuno, né aversi ingerito a fazzione alcuna, come costava publicamente. E s’intese doppo che o per la sussistenza di dette scritture o per mezzo d’amici, o meglio con alcuna unzione di mercurio indorato, s’avessero tolto gli dolori artefici delli mali intenzionati. Tanto che svanì l’incorporazione. E doppo liberamente si vendemiarono dette vigne dal sudetto signor di Lucifero.

 

6 settembre 1719

Allo scopo di  arginare i soprusi degli aristocratici di Pozzo di Gotto, che intendevano impadronirsi delle proprietà dei milazzesi, gli amministratori comunali inviano il sacerdote Diego Pisano a Messina in udienza dal generale conte di Mercy 6 settembre. Vedendosi tutti li cittadini di questa disperanzati, non solamente di puoter vendemiare le loro vigne nella Piana e nemeno di uscire in quella per osservarle, tanto per le molte scorrerie che facevano gli Spagnuoli, come per l’arroganza dell’abitatori della città di Puzzo di Gotto, li quali in ogni modo pretendevano impadronirsi dell’effetti di questi paesani, impedendo che li padroni delle vigne non puotessero nonché vendemiarsi dette vigne, nemeno prendere un grappolo di uva.

Procedendo pure contro quei che s’inviavano per tal effetto con molta rigidezza ed insolenza. Ricorsero [allora] li principali della città al signor comandante della Piazza acciò si compiacesse con sue lettere rappresentare al signor Generale Mercij, nella città di Messina, l’angustie che si soffrivano da tutti gli cittadini per la causa sudetta, per esser molto insoffribili. Giaché gli spettabili giurati inviarono per tal effetto al sudetto signor generale - affinché si dasse alcun riparo - al sacerdote Don Diego Pisano. Ed, infatti, conosciuta dal signor comandante la grave necessità, aderì alla giustificata pretenzione di questo publico e, partito per Messina il sudetto di Pisano, ove [furono] rappresentate al signor Generale Mercij l’insolenze delli abitatori di Puzzo di Gotto, spalleggiati da molte truppe spagnuole che sovente si conferivano in questa Comarca e territorio della città. Tanto che li cittadini non puotevano esser padroni della loro robba.

Supplicava il Pisano al sudetto signor Generale che con il suo permesso si puotesse richiedere al generale spagnuolo che desse licenza a questi cittadini di puoter vendemiare dette sue [loro, ndr] vigne senza contradizione delli paesani di Puzzo di Gotto, con inviarsi alcun tamburro per ottenersi la giustificata domanda. E ciò tutte le volte che il medemo Generale Mercij non avesse volsuto richiedere a quel generale spagnuolo la pretenzione di questi citadini. Onde si stava attendendo l’esito.

 

Giungono altri disertori spagnoli Molti soldati spagnuoli, così di cavallo come fanti, in questo giorno desertarono con avere preso la fuga di notte. Particolarmente quelli che si ritrovavano di guardia nelle truppe che residevano nelle terre e città di questa Comarca. E nemeno s’attendea più a richieder sudetti desertori d’alcuna relazione, poiché si conoscea che rare volte dicevano il vero. Onde vendendosi detti soldati gli cavalli e l’arme di baratto, s’inviavano - ritrovandosi la commodità di tartane - nella Calabria.

 

7 settembre 1719

Diserzioni da ambo gli schieramenti. Disertori imperiali impiccati in seguito alla cattura 7 settembre. Pure in questo giorno comparirono altri cinque soldati spagnuoli di cavallo, avendo desertato dalle loro truppe accampate per questa Comarca. E fatta vendita delli cavalli e d’arme di vile prezzo, si rimetteano con barca nella Calabria.

Così in questo mese, come nell’antecedenti, siccome in ogni giorno molti soldati spagnuoli desertavano fuggendo dalle loro truppe, altrettanto seguia dalli nostri soldati tudeschi che erano in questa città, prendendo la fuga e ricovrandosi nelli Spagnuoli. Bensì, se per disgrazia alcuno fosse stato arrestato e trattenuto nella fuga, questa provata, di subbito era condennato col conseglio di guerra alla morte con esser impiccato ad un palo in presenza di tutte le truppe del suo regimento. E benché fosse stato il patibolo molto crudele ed atroce, nondimeno per non intorbidarsi la mente di chi l’intenderà, tanto magiormente che in altre parti s’ha raccontato il modo del supplicio di quei condennati alla morte.

 

8 settembre 1719

Istituzione del passaporto per transitare dal centro urbano alla Piana allo scopo di arginare i furti d’uva nei vigneti a causa della carestia 8 settembre. Il signor comandante della Piazza, avendo riguardo che [a]gli cittadini di questa [città] uscendo nella Piana sovente succedevano molti disordini ed inconvenienti - tanto che molti restavano prigionieri delli villani armati della Comarca e d’alcune truppe spagnuole che scorreano sino per tutta questa Piana, come seguì a maestro Paolo La Malfa ed al sacerdote Don Alberto Pisano ed altri paesani, li quali furono condotti carcerati nella città del Castro Reale - quanto non aversi communicazione di qualsivoglia modo cogli nemici o per altra ragione di Stato o per altro suo fine, non permettea più che nemeno s’avesse possuto uscire in detta Piana. Tanto più che [da] molti paesani di questa, alli quali avea rimasto alcuna loro vigna con qualche puoco di uve, s’avea fatto instanza che s’intercettasse l’uscita di qualunque persona, poiché ogni giorno a ciurme molti poveri, ed uomini e femine, si conferivano nella Piana e quelle poche uve che si ritrovavano erano consumate, servendoli per alimento principale. Giaché in questa molto persistea la carestia. Onde s’ordinò alle guardie di tutte le porte della città che non si lasciasse uscire alcun paesano di qualunque condizione senza il passaporto in scriptis del medemo signor comandante. Anzi, per sapersi chi dovea uscire si publicò bando che tutti gli padroni di vigne in detta Piana lo dovessero revelare affinché da essi soli e suoi commissionati s’ottenesse il passaporto. Ed infatti si dispensavano queste licenze a contemplazione [su instanza, ndr] delli sudetti padroni.

E benché gli padroni non avessero andato in detta Piana, e la maggior parte per tema d’incontrare alcun sinistro accidente così cogli Spagnuoli come con quei della Comarca parziali di essi Spagnuoli, nondimeno era molta la turba di mercenarij, li quali richiedevano il passaporto in loro persona. E con questo mezzo provecciarsi il vivere almeno satullandosi di uve e fichi. Ed alle volte realmente dall’istessi padroni s’inviavano li suoi [loro, ndr] familiari per osservare le loro vigne e per custodirle, affinché non fossero dell’intutto magnate quelle poche uve che si ritrovavano nelle dette vigne. Oltreché, uscendo molti col passaporto la mattina, molt’altri si meschiavano con li sudetti. E di più alcuni regalavano [corrompevano, ndr] le guardie e con pochi grani pure si lasciavano uscire.

 

9 settembre 1719

Alcuni ragazzi affamati riescono a scavalcare la muraglia accanto a Porta Palermo, facendo cadere alcuni soldati di guardia e raggiungendo così la Piana senza passaporto. L’avvenimento - che suscitò ilarità tra i presenti, sia civili che militari - destò comunque una certa preoccupazione tra i comandi imperiali, in quanto l’insufficiente presidio di un accesso così importante alla città avrebbe potuto favorire un attacco nemico 9 settembre. Tra le molt’afflizioni, patimenti e lacrime di tutti questi cittadini sofferti e sparse - vedendosi essi nonché privi di tutti li loro effetti colli quali si sostentavano conforme la condizione d’ognuno, [anche] posti in grandissima carestia d’ogni vivere - pure in questo giorno per un accidente seguito ridicolo, tanto che quelli che lo viddero o l’intesero furono forzati commuoversi al riso.

Per la molta fame e penuria che correa nella città s’aveano ingerito tutti gli poveri - ed uomini e femine - di condursi ogni giorno nella Piana, ove almeno si sostentavano cibandosi d’uve e frutti che puotevano ritrovare. Ed in questo giorno, ben mattino - ritrovandosi nella Porta di Palermo tutti quelli che tenevano il passaporto del signor comandante per uscire fori la città, conforme al solito - si posero gli soldati che erano di guardia a filo d’una parte e l’altra per riguardarsi dal signor tenente, che sovrastava di posto in detta porta, gli passaporti, affinché uscissero l’espressi, con l’esclusione dell’altri. Poiché molti concorreano per puoter uscire, fra’ quali esistevano molti ragazzi poveretti. E mentre s’attende dal tenente alla numerazione delli nominati per dar la licenza alli soldati che quelli liberamente uscissero, li sudetti ragazzi, vedendosi esclusi, fattosi in detta porta dalla parte di dentro, in un groppo arditamente uscirono dalla porta, con aver fatto riversare sul suolo tre o quattro soldati con l’arme che aveano in mano. E si puosero a correre per la campagna. E cossì tutti gli altri se ne uscirono da detta porta.

Nel cadere di detti soldati con tutti gli schioppi, e nella uscita delli sudetti ragazzi, seguirono in abbondanza le risa e del tenente e di tutti gli soldati. E pure di quei che roversarono nel suolo, li quali erano di guardia nella detta porta, concorrendo nel ridere tutti gli astanti. Perloché non si fece apprension alcuna né per l’uscita di quelli che non tenevano il passaporto, né per il cadere di detti soldati. Attribuendosi l’accidente all’indiscretezza di detti ragazzi, tentata per la grave penuria e carestia nella città. E per esser quasi spiranti per la fame da più tempo sofferta in questa città.

Tutto ciò si racconta per burla, ma, considerato bene il caso, apporta molta consequenza. Poiché in tempi di guerra sempre si deve con ogni vigilanza attendere al servizio degli dominanti. E giaché in detta porta si ritrovavano tanti soldati di guardia col detto tenente tudesco, per defenzione di detta porta principale della città, si dovette con più attenzione riguardare gli ordini espressi del signor comandante, stante che s’ha osservato che molte città sono state superate dagli nemici con minore strattagemma di quella (benché senz’alcuna frode). Ma per saturarsi di aver tentata con industria dalli sudetti ragazzi.

Del che se ne raccontano più e più successi, nonché nell’istorie antiche, [pure] nelle più  nuove e presenti. Anzi con una sola carretta carica di paglia (nella quale nascosti due soli soldati d’animo virile, introducendosi dalli nemici a bello studio - col pretesto d’esser detta paglia di paesani neutrali - nella città assediata) si diede campo a detti nemici - trattenuto colla carretta il passo di detta porta, intervenendo l’ardire di detti due soldati che oppugnarono che non si serrasse - di sorprendersi la città. Poiché correndo a ciurme le truppe, le quali da più tempo tenevano l’assedio, s’introdussero nella città. E con l’eccedio della maggior parte delli cittadini la conquistarono liberamente. Quando che se s’avesse atteso a non farsi introdurre nella città detta carretta, o pure per la urgente necessità fatta più diligenza, per certo che non avrebbe seguito la perdita della città bene presidiata con tante e tante truppe e munita d’ogni provisione di guerra e di bocca. Onde sempre nell’urgenze e defensione delle città, cossì in tempo di pace, specialmente di guerra, si deve stare con tutta diligenza per non seguir alcuno, ancorché minimo, inconveniente.

 

Alcune unità di cavalleria spagnola raggiungono la proprietà dell’aristocratico Marcello Cirino - a pochissima distanza dalle mura perimetrali della città - allo scopo di ottenere un colloquio coi militari imperiali. Ma l’oggetto dell’incontro rimane riservato Continuarono in detto giorno le scorrerie di molte truppe spagnuole, nonché nella Comarca, [anche] in questa Piana. Anzi molti soldati di cavallo ordinarono conferirsi nel luogo seu senia di Don Marcello Cirino, brevi passi distante dalle mura di questa città. E rassembrando un’arroganza indiscreta, s’osservò che conducevano un tamburro, volendo far colloquio con li nostri soldati tudeschi residenti in questa città. Il che eseguito d’una parte e l’altra, si disciolse il discorso. Ma per esser sovragiunta la notte non si puotè penetrare la causa del trattato. Oltreché più delle volte gli cittadini restavano anelanti per sapere simili colloquij. Ma la saviezza degli signori comandanti - o per esser negozio molto importante o per politica di stato, o per altro fine - non lasciava nemeno congietturare con sodezza il medollo del concerto tra essi determinato. Bensì molti, o per semplice curiosità o per altra cagione, speravano che il giorno sequente s’avesse saputo il trattato determinato in detta unione fatta tra gli nemici.

 

10 settembre 1719

Revocato il provvedimento che consentiva di recarsi nella Piana solo previo rilascio di passaporto, a seguito dei continui furti d’uva registratisi nei diversi vigneti posti al di là delle trincee e dell’accampamento spagnolo, ossia ove i filari non erano stati distrutti dalle operazioni belliche 10 settembre. In questo giorno s’unirono molti principali e cittadini di questa città, conferendosi ove [si trovava] il signor comandante della Piazza ed offerirono le loro suppliche acciò si compiacesse dar ordine alle guardie nelle porte che si puotesse liberamente uscire nella Piana, così per recuperarsi in parte quelli loro effetti che li furono dalli nemici spagnuoli lasciati, come pure per attendere alla raccolta di quelle poche uve rimaste in alcune vigne dalla parte superiore del territorio. Giaché quelle che si ritrovavano nel campo e parti convicine, e nelle trinciere da essi fatte, erano redotte in terreno sodo. Magiormente che uscendo alcuni col passaporto e molti in quantità delli poveri pubblicamente assassinavano dette vigne, magnando tutte l’uve. Anzi, la sera ne conducevano molte ceste e cartelle piene con il grave interesse delle veri padroni. Al che detto signor comandante aderì liberamente e diede il permesso in generale a tutti di poter uscire nella Piana. Bensì vuolse osservare di presenza tutti gli padroni di dette vigne, con tutto che non avessero intervenuto tutti detti padroni. Infine, senz’alcun’eccettione di condizione di persone, fu concesso a tutti di puotersi trasferire in detta Piana. Peronde fu molto il giubilo e consuolo di tutti gl’abitatori della città. Particolarmente delli poveri, celebrando con mille benedizioni al sudetto signor comandante, pure per le strade ed in sua presenza. Delché esso molto si preggiava.

 

L’arrivo in Porto di diverse imbarcazioni cariche di militari spagnoli catturati dagli Imperiali, in vista di uno scambio di prigionieri, svela l’oggetto dell’incontro svoltosi in precedenza tra i rappresentanti degli opposti schieramenti al di fuori delle mura urbane Approdarono in questo porto molte tartane cariche di soldati spagnuoli con alcuni loro officiali, qual’erano prigionieri al numero di trecento, anzi più. Condotti da Reggio nella Calabria, quelli stessi che si ritrovavano nelli castelli della città di Messina ed altre parti, remasti nella resa di detti bastioni, dovendo cambiare con altritanti soldati tudeschi prigionieri che dovevano venire da Palermo. Ed in questo giorno si penetrò il colloquio seguito l’altro antecedente tra gli Spagnuoli e Tudeschi fori le porte: essere stato per farsi questo cambio. Giaché nel medemo giorno aveano venuto pure in questa città venti soldati tudeschi, quali erano prigionieri di detti Spagnuoli in questa Comarca.
 
Dragone spagnolo Lusitania (a cura del modellista Salvatore Barresi)

 

11-12-13 settembre 1719

Disertori spagnoli in fuga dall’accampamento di Rometta 11, 12, 13 settembre. Su l’alba vennero tre soldati spagnuoli di cavallo fuggiti dal loro campo in questa comarca. E l’altri due giorni susseguenti pure se ne fuggirono altri nove di cavallo scampati dalle loro truppe che si ritrovavano nella città di Rometta.

 

14 settembre 1719

Proseguono i soprusi dei malviventi dell’hinterland che inibiscono persino ai milazzesi recatisi temporaneamente nella Piana di far ritorno nel centro urbano 14 settembre. L’insolenza delli villani di tutta questa comarca, spalleggiati di alcuni principali delle terre e città convicine, particolarmente da Don Francesco Oliveri e Paolo Zangla di Puzzo di Gotto (li quali pubblicamente si demostrarono nemici molto fieri contro questa città e suoi cittadini con averli più volte composto), non cessò. Anzi, aumentandosi in eccesso, poiché essi villani con l’arme pronte scorrevano per tutta questa Piana, rubbando ed ass[ass]inando tutti quei che puoterono giungere. Anzi, avendosi il permesso da tutti gli abitatori di questa di uscire nel territorio, come s’ha esplicato, essi villani catturavano a tutte le persone, ancorché fossero state povere e femine, e le conducevano in Puzzo di Gotto, ove nell’istante erano riposte in carceri per puoche ore e, doppo sprigionate, le constringevano a dare plegeria [garanzia, ndr] di non conferirsi in questa sua [loro, ndr] Patria. E facendosi il passaporto per la Comarca, colla proibizione di non retornare in questa città come rubella. Bensì ad ognuno di questi presi per la carceratione, scarceratione, plegeria e passaporto si rubbava tarì sei per testa per le spese ed attistati fatti dalli sudetti di Oliveri e Zangla ed altri.

 

Altri disertori spagnoli Vennero molti desertori spagnuoli in questa città, fuggiti da questa Comarca, ove si ritrovavano molte loro truppe cogli officiali. E si venderono li cavalli (come gli altri giorni antecedenti venuti) di baratto. Si procurava con ogni attenzione l’imbarco per condursi nella Calabria.